Però ricordo esattamente quella frazione di secondo in cui ho smesso di farmi film sull'Amore.Non ricordo il momento preciso in cui ho smesso di credere in Babbonatale, né cosa è stato a farmi riflettere sull'impossibilità di una esistenza trascendentale e onnipotente.
La giornata era assolata nel campetto sotto casa dove portavo il mio cane Reed a giocare con la pallina e a svuotare vescica e intestini.
Reed era il nome che avevo scelto nella speranza che un giorno avrei incontrato chi, finalmente, mi avesse detto «Ah, Reed, fico! Proprio come Lou Reed».
Invece continuavo a imbattermi solo in gente che ogni volta mi diceva «Ah, come Red e Toby», che era un cartone di gran moda nel parchetto dei cani sotto casa perché raccotava l'amicizia fra un cane e una volpe.

Ed era anche inutile replicare che no, non Red, ma Reed e aggiungere anche un "con la i" davvero umiliante. Proprio come umiliante e inutile era spiegare il perché di un nome così insolito con un «c'è un cantante che mi piace tanto che si chiama così» e ogni volta ingoiare un pugno di sofferenza nel limitare il talento e la storia di un genio fra la C e la E della parola "cantante".
E così immaginavo che, in un pomeriggio come tanti, in mezzo a tanta ignoranza inutile, qualcuno si sarebbe aperto un varco dimostrando un'anima rock, nel parchetto dei cani. E sarebbe stato bellissimo riconoscerci. E sarebbe stato bellissimo anche lui con la sua giacca di pelle ecologica, il lungo capello liscio alle spalle, il sorriso complice del simile e tutto quel bagliore intorno tipico del principe azzurro.
Poi quel momento arrivò senza preavviso. C'era il sole, così come il giorno prima e quello prima ancora. Nel campetto non c'era nessuno perché era l'ora di pranzo e io avevo fatto un po' tardi. Reed correva felice e saltellava come uno stambecco drogato: io lanciavo la pallina da tennis, lui metteva il suo entusiasmo nel raggiungerla e poi la riportava in attesa del lancio successivo.

Ma quel giorno io lanciavo, lui correva, riportava e io lanciavo di nuovo.
All'ultimo lancio vedo che non torna più e allora inizio a chiamarlo e a muovermi oltre la siepe per vedere che fine avesse fatto. Lo vedo giocherellare con un cagnolino di sedici taglie in meno, mentre un tipo in ginocchio e di spalle gli agita la pallina da tennis.
Mi avvicino «Reed, ecco dove sei finito!».
Il tipo resta di spalle e fa «Si chiama Reed? Come Lou Reed!».
Ci siamo, ho pensato.
E commento con un mugugno di emozione mentre considero rapidamente che quelle treccine piene di perline e lunghe fino al sedere non le avevo considerate nel mio sogno amoroso. Così come non immaginavo che il mio rocker avesse la tuta acetata e un paio di ciabatte da piscina infilate con i calzini.

Il cielo s'è oscurato e lui sembrava il jocker di Batman con un sorriso strambo in faccia. Così ho detto «No, come Reed e Toby» e me ne sono tornata a casa col cane al guinzaglio mentre dietro di me lasciavo i cocci del mio sogno rotto.
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